In Italia il dibattito sui diritti umani si concentra spesso sui grandi scenari globali: i conflitti in Medio Oriente, la situazione in Afghanistan, la repressione degli uiguri, le rotte migratorie. Molto meno si guarda invece a ciò che accade all’interno dei nostri confini, nei luoghi in cui la libertà dovrebbe essere maggiormente tutelata e che, paradossalmente, rivelano alcune delle criticità più profonde della nostra democrazia: i reparti psichiatrici, le carceri, i centri di permanenza per il rimpatrio.
Le due Commissioni parlamentari dedicate al tema — una alla Camera e una al Senato — svolgono audizioni e approfondimenti, ma su molte questioni si registra una sorta di tacito patto politico: evitare gli argomenti più divisivi per non alimentare scontri interni. Il risultato è che proprio i temi più urgenti restano spesso ai margini del confronto istituzionale.
Un caso emblematico è quello della contenzione meccanica nei servizi di salute mentale, la pratica di legare fisicamente i pazienti in condizioni di crisi. In Italia si tratta ancora di una consuetudine diffusa. Solo poche regioni, come il Friuli Venezia Giulia, hanno adottato politiche volte all’abolizione totale della contenzione. Nel resto del Paese manca una reale tracciabilità: non ci sono dati omogenei, strumenti di monitoraggio efficaci, né un controllo sistematico sulla durata e sulle motivazioni delle contenzioni. Accade così che alcune persone possano rimanere legate per giorni o addirittura settimane, in un contesto in cui la tutela dei diritti fondamentali dovrebbe essere massima. È un vuoto che non riguarda soltanto la sanità, ma riflette un più ampio indebolimento della cultura dei diritti e della trasparenza.
La stessa opacità si ritrova in altri luoghi della restrizione, come le carceri e i CPR. Ed è proprio in questi spazi, dove le libertà individuali vengono sospese o limitate, che oggi si misura più chiaramente la qualità democratica del Paese. Sovraffollamento, condizioni critiche, suicidi tra detenuti e agenti: il sistema penitenziario continua a produrre cifre drammatiche, con numeri record lo scorso anno e previsioni analoghe per quello in corso. Eppure la discussione su un eventuale provvedimento di clemenza, che potrebbe alleggerire la pressione sulle strutture, resta bloccata da anni. Ogni volta che si tenta di affrontare il problema, l’urgenza politica si scontra con la paura di perdere consenso sul tema della sicurezza, e il dibattito si arena.
Un raro momento di scossa all’interno della maggioranza si è verificato quando l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, detenuto, ha iniziato a scrivere pubblicamente denunciando le condizioni del carcere e richiamando la sua stessa area politica alle proprie responsabilità. Le sue parole, diffuse in piena estate, hanno generato qualche turbamento nel centrodestra. Lo stesso presidente del Senato aveva aperto a una riflessione, complice anche l’avvicinarsi del Giubileo. Ma con il ritorno dell’autunno, le tensioni interne, le resistenze della Lega e le preoccupazioni elettorali hanno fatto evaporare ogni prospettiva di intervento. Il tema è così scivolato nuovamente fuori dall’agenda politica. E lo stesso, ammettono fonti parlamentari, è avvenuto anche tra le opposizioni, divise e prudenti.
Il quadro che emerge è quello di un Paese che continua a percepirsi come solido nella tutela dei diritti, mentre nei fatti vive una crescente frammentazione delle garanzie e un indebolimento della capacità di proteggere le persone più vulnerabili. I luoghi dove la libertà è sospesa mostrano invece come si siano ampliate zone d’ombra che riguardano non solo chi si trova ai margini — migranti, persone con disturbi mentali gravi, detenuti — ma la qualità stessa della nostra vita democratica.


